PUTEOLI SOMMERSA
di Piero A. Gianfrotta

"Il mio sogno è che un giorno si possa scoprire fra i ruderi delle opere portuali e commerciali che giacciono tuttora sommersi sotto le acque del golfo puteolano un'iscrizione che porti il nome di C. Turranius, praefectus annonae".

Così, Martin W. Frederiksen, uno dei maggiori studiosi della Campania antica, concludeva sul finire degli anni '70 un magistrale intervento su Puteoli e il commercio del grano in età romana. Non sulla scorta di libere elucubrazioni dell'inconscio, troppo puntuali e dettagliate - con l'evocazione di un personaggio-chiave per i rifornimenti granari di Roma nei primi anni del I secolo d.C. ancora del tutto sconosciuto a Puteoli - quanto di una lucida e ben consapevole visione delle grandi potenzialità per l'indagine storica di acquisire dati nuovi attraverso le ricerche sottomarine.
Egli stesso, del resto, attirando l'attenzione su una tarda fonte letteraria fino ad allora trascurata, aveva da poco recato un prezioso contributo al non semplice problema della cronologia delle fasi più acute del bradisismo che avevano determinato la sommersione della fascia costiera puteolana. L'esistenza stessa e l'effettiva portata di questo fenomeno, che in varie epoche e con tendenze alterne ha agito lungo la costa flegrea, sono rimaste fino all'età moderna quasi completamente ignorate. Insieme alla presenza del mare che ha fatto da barriera naturale, ha contribuito infatti proprio il silenzio delle fonti, pressoché assoluto se si esclude quel brano, valorizzato appunto dal Frederiksen, di un tardo vangelo apocrifo relativo all'arrivo di san Paolo prigioniero a Puteoli, nel quale si accenna allo sprofondamento di Baia, spiegato in chiave di punizione divina per le offese fatte al santo dai magistrati della città.
Com'è noto, la scoperta della prima, inequivocabile testimonianza dell'azione del bradisismo risale circa alla metà del XVIII secolo, quando si scavò il Macellum di Puteoli, il cosiddetto Serapeo. Sui fusti delle tre colonne di cipollino rimaste in piedi, interrate, venne in evidenza una larga fascia di fitte perforazioni lasciate dai litodomi marini nel marmo, a circa m.3.50 dalla base. Se ne dedusse che, insieme all'intero monumento, esse erano state parzialmente sommerse e successivamente riemerse, anche se la causa fu attribuita all'innalzamento del livello del mare invece che al sollevamento del suolo.
Sarà solo alla fine del XIX secolo e agli inizi del nostro che la conoscenza del litorale flegreo sommerso inizierà seppur lentamente a progredire, forse giovandosi in parte di un clima di crescente interesse per gli aspetti geologici e per i meccanismi delle sue profonde trasformazioni. A tal fine risultava di essenziale importanza porli in relazione con le strutture antiche sommerse: basti ricordare le sistematiche indagini del Gúnther lungo la vicina costa napoletana, corredate da rilevamenti e da registrazioni dei livelli e da rilevamenti effettuati dalla superficie (con scandagli e altro).

Negli anni intorno al 1890, nel quadro di un forte incremento industriale, si verificano intanto nel suburbio di Pozzuoli in direzione di Baia numerosi quanto drastici recuperi di materiali archeologici tratti dagli edifici sommersi: è il caso di un considerevole numero di capitelli e di basi di colonne relativi a un lungo colonnato ubicato nell'area immediatamente antistante gli stabilimenti della Sofer (ex cantieri Armstrong), di una base marmorea iscritta con la menzione del vicus Lartidianus e di altre iscrizioni.Dallo sviluppo delle attività industriali il porto antico non poteva certo uscirne indenne: gli imponenti resti delle pilae del lungo molo romano, emergenza caratteristica della topografia di Pozzuoli in ogni veduta paesistica fino a tutto il XVIII secolo, dopo avere efficacemente resistito per tanti secoli, sparirono banalmente inglobati nella gettata del molo moderno. La sua colpa fu quella di essere stato troppo ben posizionato e costruito, come opportunamente notava, diplomaticamente ma non senza amara ironia, il Dubois nell'accingersi a descrivere i resti da poco scomparsi: "L'emplacement était si bien choisi que, lorsque dans ces derinières années, on voulut munir d'une jetée le port de Pouzzoles, on en suivit exactement les traces, en élevant la jetée moderne sur les ruines de l'ancienne". Dopo vari altri recuperi occasionali, è negli anni '50 ormai che finalmente si creano i presupposti per, fare progredire in modo sistematico la conoscenza archeologica della vasta area sommersa, grazie ai contributi, congiunti e reciprocamente integrabili, di due fondamentali mezzi della moderna ricerca archeologica: la fotografia aerea e l'indagine subacquea. Si deve all'attenta osservazione del capitano pilota R. Bucher e al suo diretto interesse per la costa flegrea, coltivato anche in quanto espertissimo subacqueo, 1'individuazione di un vasto complesso di costruzioni sommerso

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Nell'area anticamente corrispondente alla stretta fascia dunosa (lungo la quale correva probabilmente la Via Herculanea) che separava il lago Lucrino dal mare. Fu una rivelazione sorprendente, sia per l'insospettata estensione degli edifici che per la nitidezza delle fotografie aeree oblique realizzate nella fortunata concomitanza di molteplici condizioni favorevoli, quali la calma e la trasparenza insolita dell'acqua, l'incidenza solare tale da accentuare i contrasti di luce, lo scarso sviluppo della vegetazione marina, il relativamente lieve insabbiamento. Grazie alla combinazione di tutto ciò, gran parte della topografia del Portus Iulius riaffiorava finalmente con eccezionale definizione planimetrica: ne risultava in piena evidenza il lungo canale rettilineo d'imbocco al bacino portuale internamente articolato in grandi darsene, tutt'intorno alle quali si estendeva una fitta rete di infrastrutture costituita per lo più da magazzini per lo stoccaggio delle merci.
Già da quelle prime foto, in realtà rimaste insuperate per ricchezza di dettagli, fu possibile apprezzare la unitaria regolarità dell'impianto ma anche notare come esso, almeno in alcune parti, presentasse fasi costruttive quasi certamente estranee, per orientamento, dimensioni e tipologia, all'assetto generale originario. In particolare, nell'angolo sud-orientale del complesso è evidente la sovrapposizione di un vasto edificio rettangolare, accompagnato da una costruzione a pianta circolare (probabilmente a carattere termale), posizionato obliquamente rispetto alla maglia regolare degli ambienti precedenti. Sui risultati di recenti ricerche subacquee che hanno tra l'altro consentito di verificare l'esattezza o meno delle restituzioni di quelle prime e di altre successive ci si soffermerà più oltre. Alle brillanti acquisizioni della fotografia aerea fecero subito seguito alcuni lungimiranti progetti che prevedevano l'avvio e la realizzazione sistematica della conoscenza archeologica della vasta area sommersa della costa flegrea, basata sulla diretta ricognizione subacquea, sull'analisi e sul rilevamento di quanto fosse possibile individuare sul fondo marino.
Ne fu promotore, con il Maiuri, un grande personaggio dell'archeologia italiana del tempo, Nino Lamboglia, che iniziò i lavori dalla zona antistante la Punta dell'Epitaffio a Baia, ma è altrettanto noto che, dopo appena due campagne (nel 1958 e nel 1959), i loro sforzi, ben lungi dal potersi estendere anche al litorale puteolano, s'impaludarono in difficoltà e in insensibilità burocratico-organizzative, la cui cronicità ha poi solo di tanto in tanto manifestato incoraggianti segni di cedimento. All'assenza di un continuativo programma di ricerca, indispensabile supporto anche per l'esercizio di un efficace tutela, ha fatto naturalmente riscontro un gran numero di recuperi arbitrari e di piccole e grandi asportazioni. Di molti di essi si è perduta ogni traccia, di altri è rimasta qualche notizia in tradizioni orali difficilmente verificabili, di altri ancora si conserva almeno la concreta testimonianza di quanto recuperato, anche se disgraziatamente quasi sempre senza resoconti che ne documentino l'esatta provenienza o, tantomeno, il contesto.
Alcuni rinvenimenti, a più riprese effettuati nel corso dei decenni successivi, si riferiscono all'area suburbana di Puteoli, i cui resti sommersi, che si estendono quasi senza soluzione di continuità fino al Portus Iulius, rivestono notevole importanza e si collegano in parte con i già ricordati recuperi della fine del secolo scorso. E' il caso, appunto, dell'ara di marmo bianco che reca sulla fronte un'iscrizione di dedica al dio nabateo Dusares e nella parte superiore una serie di incassi quadrangolari allineati per l'inserimento di piccole stele, in parte recuperate, forse elementi di un calendario. Dallo stesso tratto di mare già proveniva un altro altare simile e di recente vi sono state rinvenute anche due lastre, ugualmente iscritte con dedica a Dusares, probabilmente appartenenti ad un terzo altare. Si riferiscono, è evidente, alla medesima, importante sede di un culto stabilmente praticato da una delle più cospicue comunità orientali, quella degli Arabi Nabatei, installatesi a Puteoli per curare i propri interessi commerciali nel più grande terminal occidentale dei traffici marittimi con l'Oriente.
Altri rinvenimenti sottomarini, recentemente ricollegati a quella stessa area, hanno permesso di conoscere il nome antico del quartiere in cui era situato il culto nabateo: era iscritto su una grande base marmorea onoraria, dedicata all'imperatore Adriano dagli inquilini (cioè residenti, ma in prevalenza forestieri) del vicus Lartidianus nel 121 d.C.. Un'altra base di marmo recuperata poi nel 1972, un poco più oltre procedendo in direzione del Portus Iulius (di fronte allo stabilimento Pirelli), recava un'analoga dedica all'imperatore Adriano, sempre del 121, posta dagli inquilini di un vicus, dal nome incompleto, ma convincentemente integrato, Annianus. La denominazione, derivata da un gentilizio, ha consentito il collegamento con il nome di una delle più importanti famiglie di Puteoli, la gens Annia, direttamente cointeressata nei traffici mercantili con il vicino e con l'estremo Oriente. Ad essa con ogni probabilità apparteneva l'Annio Plocamo, ricordato da Plino (VI, 84), come colui che "aveva avuto in appalto la riscossione delle tasse nella zona del Mar Rosso", e fu un suo servo, Lysas, a lasciare il proprio nome inciso, in duplice versione greca e latina, sulla parete di una grotta-riparo carovaniero dello Wadi Menih, in Egitto. Tra i numerosi altri recuperi occasionali di materiali archeologici di varia natura (elementi architettonici, marmi, ceramiche, ecc.), va ricordata la scoperta, in ambienti di un medesimo edificio, posto in prossimità dello stabilimento della Sofer, di gruppi di capitelli e di basi di colonna pertinenti ad un'officina di marmorari ed anche di numerose sculture, alcune delle quali, appena sbozzate o comunque di incompleta lavorazione, appartenevano molto probabilmente alla bottega di uno scultore. Tra esse, statue di varie dimensioni raffiguranti Afrodite, Hermes, Pudicitia, Eros documentano l'attività di una delle botteghe di scultura puteolane delle cui abbondanti produzioni si sono trovate testimonianze in tutta 1'area flegrea. In quella zolla della ripa puteolana sommersa, in coincidenza con quei recuperi, come pure nel corso di recenti scavi, condotti sull'attuale spiaggia prossima ai cantieri Maglietta, sono stati notati evidenti segni di interventi effettuati già anticamente per contrastare fasi di progressione discendente del bradisismo. Potrebbe forse essere collegato ad una fase discendente del bradisismo anche il recupero, purtroppo privo di esauriente documentazione, di una straordinaria quantità di Iucerne fittili, ambientato non molto lontano, in uno dei vani degli horrea più esterni tra quelli delle grandi installazioni costiere sommerse del Portus Iulius. Sono varie migliaia di esemplari, datati intorno alla metà del I secolo d.C., la cui presenza non è giustificabile con scopi commerciali, poiché, per la maggior parte, di essi, il becco annerito dalla combustione dimostra che erano già stati ripetutamente usati. L'impiego di un numero così elevato di lucerne all'interno degli horrea, pur trattandosi di edifici non molto luminosi, appare certamente eccessivo, ma la necessità di un'utilizzazione contemporanea almeno di gran parte di esse potrebbe ben spiegarsi con l'eventualità di una particolare movimentazione notturna al loro interno. Come nel caso, ad esempio, di immagazzinamenti effettuati fino a tarda sera o anche durante la notte per approfittare delle ore più fresche nel periodo estivo e, soprattutto, per abbreviare i tempi di sbarco. Un tale problema a Puteoli, seppure dotata di ampie infrastrutture per l'immagazzinamento dislocate principalmente lungo la ripa, dovette essere particolarmente sentito, dato il gran traffico di navi frumentarie, specialmente della flotta alessandrina, che con viaggi concentrati nella buona stagione si susseguivano a sbarcare i loro voluminosi carichi di grano.
E' soprattutto nell'ottica del rifornimento granario, infatti, che vanno intese le finalità e le funzionalità dell'intero complesso, nel quale si è proposto di riconoscere, ad iniziare dal largo e poderoso canale d'accesso, il terminale di partenza per quel lungo percorso navigabile che Nerone aveva arditamente fatto progettare allo scopo di congiungere Puteoli a Roma, creando un'affidabile e continua via d'acqua, larga tanto da consentire il transito incrociato di due quinqueremi: se ne accenna in dettaglio in un altro contributo del presente volume. Rendendo sicuro il trasferimento del grano a Roma anche durante i mesi invernali, si sarebbe definitivamente risolto un problema di importanza vitale ovviando ai pericoli delle tempeste - inevitabili con il tragitto in mare - ed anche alla lentezza e alla dispendiosità del trasporto su carro. La morte di Nerone nel 68 d.C. interruppe il lavoro di scavo dopo appena quattro anni, ma nei territori costieri, dall'Averno fin quasi a Mondragone, sono ancora riconoscibili nelle fotografie aeree - come si dirà con ampiezza in un altro capitolo - i profondi segni lasciati da quelle opere. Le modificazioni a più riprese intervenute nell'assetto originario del Portus Iulius, probabilmente iniziate seppure con lievi effetti già non molto dopo il suo impianto - voluto da Agrippa nel 37 a.C. nel quadro dei preparativi delle spedizioni navali contro Sesto Pompeo - e poi seguite dall'azione discendente del bradisismo nella tarda antichità, fino alla quasi totale scomparsa del lago Lucrino a causa dell'eruzione del Monte Nuovo nel 1538, rendono oggi ancora più preziosi i dati rivelati dalle fotografie aeree relative alla zona sommersa. Sono state certamente rilevanti le acquisizioni derivate dalle fotointerpretazioni, dalle prime proposte di G. Schmiedt pionieristicamente generose, a quelle dei nostri tempi che hanno recato un considerevole apporto di integrazioni e di modificazioni, la cui validità tuttavia appare a volte condizionata dal procedere selezionando dalle fotografie aeree indicazioni spesso non univoche e insidiose (tanto più in un ambiente estremamente mutevole qual'è il fondo marino a scarsa profondità), adeguandole ad interpretazioni o a convincimenti maturati " a tavolino " . E' stato molte volte ribadito - da specialisti e non - che, senza l'integrazione del controllo diretto, un tale procedimento, metodologicamente insufficiente, può condurre a risultati fuorvianti.
Anche a tale fine, i resti del grande complesso portuale, che si estendono per quasi dieci ettari, sono in questi ultimi anni divenuti finalmente oggetto di sistematiche indagini topografiche subacquee corredate dal rilevamento generale e di dettaglio. La lettura archeologica delle strutture sommerse, rintracciate tra la fitta vegetazione e la sabbia, ha interessato per ora una grande serie di edifici prossimi alla linea di costa attuale nella zona del " Lido Augusto " , più immediatamente minacciati quindi dagli appetiti della speculazione edilizia.

La profondità assai scarsa (da m. 2.50 a m. 5 circa) agevola il lavoro soltanto in parte giacché gli ostacoli sono altri: la presenza di fittissima vegetazione da eliminare per giungere a contatto con le strutture; la scarsa visibilità; la visione molto parziale dei resti con possibili equivoci di interpretazione e di misurazione; le difficoltà di comunicazione adeguata nel corso delle operazioni di rilievo. L'area finora rilevata riguarda un vasto edificio a pianta quadrangolare con corte centrale, articolato in lunghi tronconi rettangolari evidentemente costruiti secondo un progetto unitario, con moduli uguali che si ripetono. Sono magazzini destinati allo stoccaggio delle merci, costituiti da ambienti con muri di reticolato e provvisti di soglie di pietra, molte delle quali ancora in situ, che per la maggior parte si aprivano su un'area centrale, preceduti almeno su un lato da un porticato a pilastri di tufo. Sono tutti di dimensioni simili, mentre vani più stretti, larghi un metro o poco più, indicano chiaramente la presenza di scale per accedere ad almeno un primo piano. In un caso si è rintracciato ancora in posto un gradino di pietra le cui dimensioni hanno consentito un'elaborazione, teorica ma verosimile, dell'alzato originario.
Alcune delle cellae degli, horrea conservano anche il pavimento in signino di notevole spessore; in qualche caso vi si trovano inseriti verticalmente pali di legno, ancora in buono stato, per sorreggere probabilmente soppalchi o ambienti ammezzati. In più punti dell'edificio si sono individuati, appena al di sotto di una leggera coltre di sabbia, cospicui resti dell'impianto idraulico, sia per l'adduzione che per il deflusso, oltre ad alcune vasche di cocciopisto poste all'esterno delle cellae.

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Non essendo stato effettuato alcun saggio di scavo, avendo preferito dare la precedenza all'opera di documentazione, non si dispone di molti elementi per determinare la cronologia del complesso, il cui impianto sembra tuttavia databile verso la fine del I secolo a.C. o i primi anni del successivo, mentre ad una fase più tarda si riferisce un lungo muro di mattoni nel settore orientale del fabbricato, conservato per circa un metro di elevato, costruito probabilmente in seguito a parziali cambi di proprietà o anche di destinazione d'uso, per dividere diversamente gli spazi.
Il lato occidentale degli horrea è occupato da un edificio con strutture in opera quasi reticolata, la cui pianta rivela la sua natura di domus padronale (connessa con gli horrea?) con la fronte dai molteplici ingressi rivolta a settentrione, mentre sul lato opposto è ben evidenziato un peristilio di colonne di laterizi rivestite di intonaco a delimitare un'area a giardino e fontane. Ancora più ad ovest, subito accanto, quasi del tutto occultati dalla sabbia, si sono rintracciati i resti di un edificio sistematicamente ridotto a livello pavimentale, ma con pavimenti abbastanza ben conservati: uno in signino decorato con tessere bianche disposte a meandro ed uno a mosaico di tessere bianche e nere con la soglia, di passaggio tra gli ambienti, decorata con un tappetino di piccole clessidre nere su fondo bianco, ambedue databili ai primi anni del I secolo a.C.. Potrebbe forse trattarsi dei resti di una villa marittima o di un'altra domus, rasa al suolo per fare spazio all'edificio con peristilio del quale si; è detto. Oltre agli impianti del Portus Iulius e a quelli estesi lungo tutta la ripa puteolana, con immediatamente alle spalle una fitta rete di infrastrutture commerciali alle quali si è accennato, l'elemento principale e caratterizzante della topografia marittima di Puteoli è certamente il porto che, nel pieno dell'area urbana, appare raffigurato in primo piano sui vetri delle bottiglie-souvenirs (quelle di Praga, di Odemira, di Populonia, del Pilkington Museum, di Colonia, di Ostia, di Ampurias) con il grande molo scandito da arconi sostenuti da pilae.

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Completamente spariti sotto il cemento delle ristrutturazioni moderne, i resti del molo romano, come si è detto all'inizio, sono rimasti per secoli ben visibili, come documentano numerose vedute paesaggistiche di viaggiatori italiani ed europei del XVII e del XVIII secolo. Era lungo in totale 372 metri, costituito da una fila di almeno quindici pilae a pianta quadrangolare, leggermente arcuata in modo da reggere meglio l'impatto con le onde. Le pilae erano provviste di anelli d'ormeggio in pietra, visti dal Dubois, e, con altezza progressivamente variabile in relazione al fondare, si allineavano in direzione ovest-est, a protezione - com'è tipico dei porti del Tirreno - dai venti meridionali. Fu probabilmente costruito in età augustea, nel periodo di massima sperimentazione e sviluppo delle costruzioni marittime in genere e particolarmente nell'area flegrea (com'è riflesso nell'opera vitruviana e in numerosi autori d'età augustea), quando Puteoli ricevette una nuova deduzione coloniaria. Fu ampiamente restaurato sotto Adriano, poi con Antonino Pio e più tardi.

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Nella parte sud-orientale del Rione Terra, inoltre, nel tratto di mare prossimo all'ex convento dei Cappuccini si estendono a minima profondità notevoli resti di strutture in reticolato e in laterizio, note già almeno dal XVI secolo. Sono state variamente interpretate (per lo più come peschiere o come porto), ma sono probabilmente pertinenti ad una villa marittima alla quale sono riferibili rinvenimenti occasionali avvenuti in più riprese: una fistula di piombo iscritta, relativa alla proprietà, recuperata nei primi anni del nostro secolo, alcuni capitelli ed altri elementi marmorei di decorazione architettonica, ritrovati una decina di anni fa. Non va poi dimenticato che le imponenti opere marittime di Puteoli non possono essere considerate a se stanti, ma inserite in un quadro generale di potenziamenti, di ristrutturazioni e di nuovi apprestamenti portuali nell'intero golfo puteolano. Nell'ambito cioè di un sistema complessivo, articolato e con funzioni diversificate e complementari, sia commerciali che militari, che naturalmente ha la base di Miseno nel massimo conto, ma che sul versante puteolano prevede anche un'altra area portuale, finora trascurata, sulla quale proprio le ricerche archeologiche subacquee sono in grado di richiamare 1'attenzione. E' quella dell'isola di Nisida, all'estremità sud-orientale del golfo che in età moderna ha conservato un ruolo prettamente militare. Nella stretta lingua artificiale, di formazione moderna, che la unisce alla costa è oggi impiantata la sede del Comando delle forze militari NATO per il Sud-Europa. Fino ad oggi non erano archeologicamente noti resti d'impianti portuali antichi, ma recenti indagini subacquee, condotte dalla Soprintendenza archeologica di Napoli e Caserta per controllare la costruzione di un molo di grandi massi di pietra, hanno potuto rilevare tre pilae ancora in piedi sul fondo marino, superstiti di una numerosa serie di altre finite sotto l'accumulo del molo in costruzione oltre che sotto il riempimento che nella seconda metà del secolo scorso portò alla formazione della lingua di terra dov'è oggi impiantato il comando NATO. Lo si ricava dalla documentazione fornita da alcune carte borboniche come, ad esempio, con dovizia di particolari in quella di Antonio Rossi del 1838, la quale mostra chiaramente alcune file di pilae, a pianta quadrangolare in tutto simili a quelle di Puteoli, sia nel punto dov'è il molo di massi di pietra in questione, sia più all'interno in posizione di ridosso.
La più esterna delle pilae individuate è perfettamente conservata. Alta dal fondo del mare m. 9,50, giunge con la sommità a m. 1,80 dal livello del mare e ha pianta irregolarmente trapezoidale (con lati di m. 7,70; 9,02; 14,20; 15,20). E' una torre imponente, massiccia, costruita con gettate di opera cementizia e pezzame di tufo che lungo i lati appare disposto in modo simile a quello dell'opera reticolata. Gli angoli sono arrotondati, curvilinei, e si notano lungo le pareti le linee orizzontali dei piani delle successive gettate del calcestruzzo. In alcuni punti si rintracciano incassi e fori che ospitavano originariamente pali e travi di legno della cassaforma impiegata per la costruzione. Si tratta di casseforme a doppia paratia, rese stagne e svuotate dall'acqua in modo da potervi lavorare internamente all'asciutto: i tufi (la denominazione di opera reticolata, anche se rende l'idea della disposizione, risulta nel caso delle pilae particolarmente impropria) sarebbero quindi stati posti in opera dall'interno con molta cura per ottenere la massima coesione. Descrizioni di simili casseforme sono fornite da Vitruvio (V, 12, 5), ma queste dei Campi Flegrei sono tra le prime testimonianze archeologiche finora documentate. Ad esse fanno riferimento anche altri autori, a proposito delle zone di Baia e di Pozzuoli, ma alcuni soprattutto sottolineano la particolare tecnica che rendeva possibile realizzare tali costruzioni, soffermandosi sull'impiego di uno specifico elemento, che inserito nell'impasto del conglomerato cementizio, consentiva grazie alle sue caratteristiche fisico-chimiche un'efficace e duratura presa in ambienti umidi e persino nell'acqua. E' la pozzolana, appunto, il pulvis puteolanus d'origine vulcanica tipico dei Campi Flegrei dove se ne trova di qualità migliore. Le sue proprietà sono esaltate da Vitruvio (II, 6, 1; V, 12, 2-3), che si sofferma esclusivamente sulla pozzolana flegrea e su quella che si trova nell'area compresa tra Cuma e Sorrento, da Seneca (Quaest. nat. III, 20, 3:"Puteolanus pulvis si aquam attigit, saxum est"), oltre che da Strabone (V, 4, 6) che attribuisce espressamente ad essa il merito della costruzione lungo la costa flegrea, di opere marittime tali da articolare la riva in bacini nei quali le più grandi navi possano ormeggiare sicure. La pozzolana era a tal punto determinante per il buon esito delle costruzioni in mare che se ne giustificava il trasporto persino in regioni molto lontane, come indicano recenti analisi effettuate sul conglomerato dei moli del grande porto di Cesarea in Palestina, d'età augustea, oggetto di approfondite ricerche condotte in questi ultimi anni dal Centro di studi marittimi dell'Università di Haifa.
In fondo, non fa meraviglia, poiché la pozzolana può ben essere stata un adeguato carico di ritorno per le tante navi (anche alessandrine) che, giunte nel porto di Puteoli dal Mediterraneo orientale, oltre che dall'Egitto, trasportando derrate alimentari per Roma oppure merci esotiche dall'Estremo Oriente, ne sarebbero dovute altrimenti ripartire vuote (…navigia inania et vacua et similia redentibus…, Plin. Panegyr. 31).

 
 

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