UN PORTO SOTTO IL MARE
di Piero A. Gianfrotta

Chi seguisse oggi dal mare la movimentata morfologia costiera del territorio flegreo e volesse mentalmente ambientarvi luoghi e situazioni del passato si troverebbe certamente in serie difficoltà quando, non contento di un immagine geografica complessiva, volesse giungere ad un quadro più puntuale e dettagliato. Non potrebbe in alcun modo riuscirvi senza tener conto che, per via di drastici mutamenti naturali, l'attuale topografia costiera si discosta notevolmente da quella antica.

Per lungo tratto che da Napoli giunge fin quasi a Cuma, il paesaggio costiero, pur conservando scorci di non comune suggestione e bellezza -- imponderabilmente scampati alla dilagante capillarità delle edificazioni moderne --, risente infatti profondamente delle alterazioni apportate dalle alterne tendenze geologiche caratteristiche di quest'area. Il fenomeno del bradisismo, in particolare, ha agito più o meno intensamente provocando lo sprofondamento e la immersione di una larga fascia di territorio che tra Pozzuoli e Miseno, soprattutto all'interno del golfo baiano, ha raggiunto la sua massima estensione.

Proprio a questa si riferiscono le rare raffigurazioni paesaggistiche dipinte nella celebre serie di vasi di vetro prodotti a Puteoli, nella tarda età imperiale, come souvenirs turistici. I luoghi su di essi riprodotti sono panoramicamente osservati dal mare, con sequenze di monumenti di Pozzuoli, di Baia e di Miseno, ma è assai arduo confrontarli con la realtà odierna. Gran parte di essi è oggi sommersa e su una vasta area della antica Baia è impiantato un porto commerciale, dove le navi stazionano ancorandosi disastrosamente sui resti degli edifici sommersi. Anche a terra, in alcuni punti, il mutamento è stato radicale: dove si estendeva il lago Lucrino s'innalza il Monte Nuovo, formato nel 1538 dagli accumuli di un cratere vulcanico.

Esempi di cataclismi con sprofondamenti in mare anche di interi centri non mancano, soprattutto nel Mediterraneo Orientale. Dal maremoto successivo all'eruzione vulcanica che distrusse l'isola di Thera verso il XIV secolo a.C., forse in coincidenza con la sommersione di molte località della costa settentrionale di Creta e di quelle meridionali del Peloponneso; al terremoto e al maremoto che, nel 373 a.C., fecero sprofondare in mare, in una sola nottata, la fiorente città di Helike nel Peloponneso settentrionale; al terremoto che distrusse Cirene, nel 356 d.C., sommergendo parzialmente il gran porto di Apollonia. Analoga sorte toccò probabilmente a Kenchrai, uno dei porti di Corinto nella tarda età imperiale. Di esempi se ne potrebbero ricordare vari altri, ma la sommersione dei Campi Flegrei risulta per molti versi unica nel suo genere. Innanzi tutto per la vasta estensione del fenomeno e per i suoi meccanismi, con lenta gradualità e reversioni periodiche di intensità differente a seconda delle zone. Le recenti vicende del preoccupante sollevamento del suolo di Pozzuoli – superiore a due metri, mentre nella vicina Baia è stato quasi impercettibile – hanno, infatti, mostrato che il bradisismo flegreo può non agire in contemporaneità su tutta l'area, ma irradiarsi con maggiore o minore accentuazione proporzionalmente alla distanza dall'epicentro.

Anche nel valutare la situazione antica lo si deve, quindi, tenere presente.

La sommersione flegrea riguarda poi, più che altrove, un territorio di eccezionale importanza storica, spesso in relazione diretta con le vicende della stessa Roma, comprendente centri di grande attività commerciale, come Puteoli, o residenziali, come Baia e la costa napoletana, oltre alla presenza di grandi installazioni militari come il Portus Iulius e successivamente Miseno.

E' quindi evidente come la conoscenza della topografia antica di una regione che proprio lungo la fascia costiera ha raggiunto il massimo sviluppo non possa prescindere dallo studio di quella parte – notevolissima – attualmente sommersa, che con quella rimasta all'asciutto costituisce un tutt'uno.

Il quadro storico – archeologico è unico, la diversità consiste essenzialmente nel differente ambiente fisico che la presenza dell'acqua marina ha instaurato.

Per superare quest'ostacolo è perciò indispensabile che l'archeologo sia messo in grado di effettuare il proprio lavoro sott'acqua. Mutano i mezzi tecnici, ma non i criteri generali della ricerca archeologica che, soprattutto nel caso dei siti sommersi, si estendono invariati al campo subacqueo. Anche i problemi che si pongono sono i medesimi: rilevamento di piante topografiche, ricerca e definizione degli strati, documentazione delle fasi di scavo, identificazione delle strutture, etc.. Fino a non molti anni fa, quando sott'acqua non si andava, degli effetti e della reale entità del bradisismo che nell'antichità aveva così profondamente colpito la costa flegrea, non si sapeva molto.

Anzi, lo si sarebbe quasi ignorato se non ci fossero stati gli inequivocabili segni lasciati dalla corrosione dei litodomi marini sulle colonne centrali del macellum di Pozzuoli, a indicare il livello raggiunto dall'acqua del mare in un periodo di maggiore sommersione.

Per lungo tempo, tuttavia, insieme ad un interesse prevalentemente rivolto agli aspetti geologici, l'attenzione per le antichità sommerse fu limitata ai rinvenimenti occasionali. (Risale già al 1756 quello di un grande medaglione marmoreo con il busto di Eschine, effettuato nella zona di Baia). E' solo negli anni a cavallo tra la fine del secolo scorso e gli inizi di questo che, pur sempre con ottica rivolta ai fenomeni geologici, le testimonianze archeologiche sommerse vengono poste nella giusta prospettiva scientifica grazie alle sistematiche indagini di R.T. Gúnther.

Riguardavano essenzialmente la fascia costiera napoletana, da Posillipo agli isolotti della Gaiola, fittamente occupata, specialmente dall'età augustea, da estese e lussuose ville di importanti personaggi della classe dirigente romana, come quella di Vedio Pollione ereditata poi da Augusto.

Realizzate attraverso una fitta serie di rilevamenti, corredati da quote di profondità, ne risultarono preziose planimetrie che, seppure con inevitabili imprecisioni ed erronee interpretazioni dovute principalmente all'assenza di diretti controlli subacquei, risultano ancora basilari. Né in quell'area sono state mai più intraprese indagini di così ampio raggio, la cui mancanza si fa ancora più sentire sullo stimolo di recenti proposte di rettifica o di nuove, occasionali scoperte: ultima, quella, di fronte a villa Rosebery, di una piccola statua marmorea di ninfa seduta, d'età imperiale.

Con intenti più modesti - e con limiti analoghi - si pongono poi nella medesima linea del Gùnther alcuni, isolati rilevamenti di L. Jacono in vari punti della costa flegrea, certamente apprezzabili nel prevalere di un generale disimpegno nei confronti dei resti archeologici sommersi, episodicamente interrotto solo per procedere a disastrose estrazioni di opere d'arte.

Particolarmente abbondanti quelle che massicci dragaggi nel porto di Baia, nel corso degli anni '20, strapparono dai loro contesti.

Un loro, sommario elenco è già di per sé eloquente: 1) statua acefala di Hera " tipo Borghese "; 2) statua acefala di Tyche; 3) statua di Heracles giacente; 4) statua acefala di Atena "tipo Arezzo "; 5) gruppo di Psyche ed Eros; 6) parte superiore di statua di satiro; 7) torso di Eros alato; 8) testa di amazzone; 9) parte inferiore di amazzone (della statua precedente o di altra statua?); 1O) parte inferiore di statua muliebre ammantata; 11) base frammentaria di figura maschile; 12) erma barbuta "tipo Pireo "; 13) torso di Eros punito; 14) testa forse di Igea; 15) altra testa di Igea; 16-20) frammenti di altre statue; 21) lastra con trofeo di armi e prigionieri; 22-23) due lastre con Eroti e candelabro; 24) fregio con grifi e candelabri. Oltre a colonne spezzate di marmo e di alabastro, basi di colonne, capitelli, frammenti di architrave, di transenne, di marmi policromi, ecc.. Nel 1930, una statua di Nettuno viene recuperata presso la nuova banchina del porto.

Notevoli mutamenti si verificano negli anni '50, quando un insieme di positive premesse sembra aprire nuove, promettenti prospettive all'indagine archeologica dell'area flegrea sommersa. Da un lato, il progresso raggiunto nel campo della fotografia aerea aveva reso possibili eccezionali riprese obliquee che ampliavano i contorni di quanto si riteneva fosse conservato sott'acqua e rivelavano l'intero assetto planimetrico dei resti del Portus Iulius. Dall'altro, la già sperimentata adozione del respiratore autonomo aveva consentito la nascita dell'archeologia subacquea: in Italia si era costituito il Centro sperimentale di archeologia sottomarina di Albenga, che tra i primi luoghi d'intervento sceglie, non a caso, la zona di Baia.

E nel 1959 che Nino Lamboglia, direttore del Centro, e Amedeo Maiuri, soprintendente della Campania, dedicano attenzione al problema di Baia sommersa e avviano una breve campagna di esplorazione sottomarina, riservando particolare interesse alla zona di Punta Epitaffio che chiude a est l'attuale porto di Baia. Il loro programma prevedeva l'elaborazione di una carta archeologica dei resti subacquei, da realizzare perlustrando integralmente tutto il fondale compreso tra Baia e Pozzuoli, allo scopo suddiviso convenzionalmente in grandi quadrati.

Il lavoro, iniziato dal quadrato antistante la Punta Epitaffio, si rivelò subito di grande interesse dal punto di vista metodologico, poiché, per la prima volta, si affrontavano i complessi aspetti del rilievo subacqueo e dello studio sistematico di aree archeologiche sommerse. A breve distanza da Punta Epitaffio, a circa sei metri di profondità, fu individuato il tracciato di una strada lastricata, articolata in tre tratti, affiancata da un lungo porticato e da vari altri edifici di probabile carattere termale.

Fu anche avviata in quell'occasione un'intensa opera di perlustrazione dei fondali che portò alla scoperta dei resti di numerosi edifici romani che s'inoltravano verso il largo per circa quattrocento metri, fino alla linea di costa antica. Ma l'iniziativa intrapresa dai due studiosi, secondo una bizzarra episodicità che diverrà poi caratteristica della ricerca sottomarina nei Campi Flegrei, fu presto interrotta dalla mancanza di mezzi e da ostacoli burocratici.

Si bloccano, quindi, le ricerche ufficiali appena iniziate, ma non cessano, naturalmente, i recuperi incontrollati e le asportazioni, che, anzi, sono incrementate dal crescente proliferare degli sports subacquei. Della maggior parte di essi - di grande o di lieve entità - restano solo labili tracce, limitate in genere a tradizioni orali difficilmente verificabili, comunque insufficienti a penetrare, a distanza di anni, gli intricati percorsi del mercato clandestino. Di altri, però, si conservano testimonianze più tangibili attraverso i materiali recuperati, anche se quasi mai corredati da resoconti che documentino le circostanze di rinvenimento.

Alcune, di notevole importanza, effettuate nel corso degli anni '60 e '70, riguardano l'area suburbana di Puteoli, i cui resti sommersi si estendono fin quasi al Portus Iulius. Proviene da questa zona un'ara marmorea, dedicata al dio nabateo Dusares, che reca nella parte superiore una serie di incassi quadrangolari per l'inserzione di piccole stele, forse parti di un calendario. Insieme ad analogo monumento, recuperato già alla fine del secolo scorso, essa testimonia il culto praticato da una delle più cospicue comunità orientali, appunto quella degli Arabi Nabatei, installatesi più o meno stabilmente a Puteoli.

Il porto di quest'ultima, com'è noto, costituiva il principale terminale dei traffici marittimi con l'oriente, nei quali erano direttamente coinvolti ricchi mercanti e affaristi puteolani, come, ad esempio, per restare in tema di Arabi Nabatei, quell'Annius Plocamus che gestiva i lucrosi appalti daziarÎ(Plin., N.H. VI, 22 (24), 84-85) sulle merci di lusso (spezie, profumi, stoffe, ecc.) che attraversavano il Mar Rosso, coadiuvato da numerosi schiavi o liberti suoi rappresentanti. Di uno di essi, un certo Lysas, due iscrizioni rupestri del 6 d.C. attestano la presenza in Egitto allo Wadi Menih, lungo uno dei principali percorsi di collegamento carovaniero tra i porti del Mar Rosso ed il Nilo (e quindi con il Mediterraneo).

Altri rinvenimenti subacquei, grossomodo nella stessa area, hanno permesso di conoscere il nome antico del quartiere nel quale era ubicato il culto nabateo di Dusares. Era il vicus Lartidianus, menzionato su una dedica ad Adriano del 121 d.C., situato nella parte suburbana di Puteoli, non lontano dal Portus Iulius, al quale appunto facevano riferimento nel corso dell'età imperiale gran parte delle operazioni commerciali.

Anche il vicus Annianus, probabilmente riferibile agli Annii Plocami, il cui nome potrebbe riconoscersi su un'analoga dedica all'imperatore recuperata sott'acqua, troverebbe significativa collocazione in questa zona commerciale della città.

Merita poi di essere ricordato, tra uno stillicidio di numerosi altri recuperi (elementi architettonici, materiali ceramici, ecc.), il singolare quanto enigmatico rinvenimento di una straordinaria quantità di lucerne fittili ammassate in uno degli ambienti immediatamente adiacenti il Portus Iulius. Sono varie migliaia di esemplari, la cui presenza non sembra giustificabile per fini commerciali, poiché, per la maggior parte di essi, il becco annerito dalla combustione dimostra che erano già stati usati. Il loro inquadramento cronologico, verso la metà del I secolo d.C., potrebbe in ogni modo costituire un indizio prezioso per datare le fasi del bradisismo in quell'area.

Una simile situazione di abbandono per l'imminenza della sommersione, riferibile però all'età imperiale inoltrata, si è riscontrata più oltre, verso Pozzuoli, in occasione della scoperta, in ambienti di uno stesso edificio, di gruppi di capitelli e di basi marmoree attribuibili ad un'officina di marmorario e di numerose statue di marmo, alcune delle quali, appena sbozzate, appartenevano probabilmente alla bottega di uno scultore. Tra queste - purtroppo, non ancora pubblicate dopo anni - erano le statue di una piccola Afrodite, di un Hermes, di una figura femminile " atteggiata nello schema della Pudicitia", di un minuscolo Eros o Dioniso.

Pur con indubbi motivi d'interesse, ma anche con elementi di insulsa spettacolarità, l'abbondanza dei rinvenimenti di statue e di sculture ha caratterizzato e condizionato a lungo i passi dell'archeologia subacquea nei Campi Flegrei, come, del resto, è avvenuto - se può servire di consolazione - anche nell'archeologia "di terra", per secoli, prima dell'affermarsi dei moderni criteri scientifici.

Oltre a quelli fin qui ricordati, ci si limita ad accennare ai rinvenimenti, nei pressi di Pozzuoli, di due altre statue marmoree, ridotte in pessimo stato dalla micidiale azione dei litodomi marini, e di una statua di Hera "Borghese" recuperata in anni recenti nel porto di Miseno. Quest'ultimo tipo statuario sembra avere goduto di particolare apprezzamento e diffusione anche nella vicina Baia, dal momento che un esemplare - menzionato all'inizio - proviene dalle acque del porto e che il tipo figura tra i modelli scultorei di gesso, trovati negli scavi del grande complesso delle terme baiane.

Argomento a parte costituiscono, invece, due altre statue, anch'esse sfigurate dai litodomi nella parte superiore, rinvenute presso Punta Epitaffio, proprio dove avevano avuto luogo le ricerche del Lamboglia. Scoperte da forti mareggiate che nell'inverno del 1969, ne avevano fatte affiorare dal fondo le sommità, esse erano ancora in piedi nella collocazione originaria, nell'abside di un grande edificio rettangolare.

Recuperate con uno scavo di fortuna, dopo qualche incertezza di interpretazione, si riconobbero in esse due dei protagonisti della celebre scena omerica dell'inebriamento di Polifemo. Da un lato dell'abside era collocata la statua di Ulisse che porge la coppa piena di vino al ciclope, dall'altro quella di un suo compagno di avventura mentre versa altro vino da un otre. All'interno delle due statue erano alloggiati condotti di piombo che portavano acqua alla coppa di Ulisse e all'otre del compagno: proprio la presenza di queste acque zampillanti, oltre ad inequivocabili elementi della decorazione parietale, caratterizzano l'ambiente che le ospitava come un ninfeo.

Al completamento della scena mancava, dunque, Polifemo, che la posizione delle due statue recuperate inducevano a cercare al centro dell'abside.

E cosi che, pur sempre dopo dodici anni di pausa, si è giunti ai recenti scavi sottomarini. Si sono svolti nel biennio 1981-'82, ma sono poi stati seguiti da interventi di ricognizione e rilevamento, oltre che da un impegnativo lavoro di restauro delle statue trovate nel ninfeo, ora esposte nel castello aragonese di Baia.

Posto quasi a contatto con la base rocciosa di Punta Epitaffio, a profondità che all'interno supera di poco i sette metri, il ninfeo è costituito, come si è accennato, da un grande ambiente rettangolare (m. 18 x 9), absidato. Le pareti lunghe sono articolate in quattro nicchie rettangolari ciascuna, intervallate da lesene, precedute da due altre aperture analoghe che fungevano da ingressi laterali. Tutt'intorno alle pareti del ninfeo corre uno stretto canale ancora completamente rivestito da lastre di marmo bianco, mentre all'interno del piano centrale è ricavata una grande vasca.

Nel corso dello scavo, nell'asportare un massiccio riempimento di materiali di scarico (detriti edilizi, rifiuti domestici, ecc.), con i quali fu volutamente colmato il ninfeo all'epoca del suo abbandono, sono state scoperte ben cinque statue che erano originariamente collocate nelle nicchie laterali. La prima ad essere rinvenuta, in prossimità della prima nicchia del lato est, raffigurava Dioniso adolescente, in grandezza naturale, conservata quasi intatta. Sempre sullo stesso lato, davanti alla seconda nicchia, si è trovata una statua-ritratto di bambina, con ricca acconciatura dei capelli, nella quale si è proposto di riconoscere Ottavia, l'infelice figlia dell'imperatore Claudio e di Messalina, sposata da Nerone e poi relegata e fatta uccidere a Pandataria (Ventotene).

Poco più oltre, poi, ai piedi della quarta nicchia del medesimo lato, giaceva in pezzi un'altra statua di Dioniso giovane. Nuovamente il dio del vino, quindi, la cui connessione con la scena dell'inebriamento di Polifemo appare diretta e appropriata. Dall'altro lato, fu invece scoperta, sdraiata a faccia in giù accanto alla parete, un'altra statua-ritratto.

Raffigura, su un tipo iconografico classico, una donna matura, acconciata con un prezioso diadema traforato, nella quale si è riconosciuta l'immagine di Antonia Minore, figlia di Marco Antonio il triumviro e madre dell'imperatore Claudio.

La statua, datata agli anni '40 del I secolo d.C., sostiene sulla mano sinistra un piccolo Eros alato, il dio dell'amore in frequente unione con Venere; e in questo caso, appunto, Antonia è rappresentata nelle sembianze di Venere genitrice, dalla quale si vantava discendere la gens giulio-claudia. La presenza di membri della famiglia imperiale tra le statue che decoravano il ninfeo rende assai probabile la sua appartenenza al grande complesso del palazzo imperiale di Baia.

Un'altra statua, infine, ridotta però ad un grosso pezzo del tronco di una figura virile in posa eroica, è stata trovata all'interno della vasca centrale, dove era stata gettata insieme all'ammasso di detriti.

Prima del suo definitivo abbandono, tra la fine del III e gli inizi del IV secolo d.C., il ninfeo fu frettolosamente spogliato di quei materiali da costruzione (marmi e tubi di piombo) facilmente riutilizzabili altrove. In seguito, per breve tempo, continuò qualche forma di vita negli ambienti adiacenti di poco più elevati del ninfeo e quindi ancora non raggiunti dall'acqua. Con il progredire inesorabile del bradisismo tutta la zona fu invasa dal mare ed ebbe luogo il crollo degli edifici.

Dopo di allora, forse ad un breve periodo di parziale regressione, potrebbe risalire la triste frequentazione indicata da alcune sepolture incontrate a livello superficiale. Una di esse, relativa ad un bambino di pochissimi anni deposto all'interno di una grande anfora cilindrica tardo-antica, è stata trovata all'apice della curvatura absidale, proprio dove una volta alloggiava la statua di Polifemo, evidentemente già rimossa quando fu deposta la sepoltura.

Alla luce dei recenti scavi, sembra quindi probabile che la fase finale del graduale inabissamento di Baia abbia avuto luogo nel periodo che va dall'abbandono del ninfeo alla deposizione delle sepolture sulle rovine, grossomodo compreso tra il IV e la fine del VI sec. d.C., con propensione per gli anni vicini a quest'ultima data. A tale periodo, poi, ricondurrebbe anche l'unica fonte letteraria che fa riferimento al bradisismo di Baia e di Pozzuoli.

E' un brano di un testo tardo-greco noto come Atti (apocrifi) di San Pietro e San Paolo che per la sua singolarità merita di essere riportato nei punti essenziali. Il racconto trae origine dall'arrivo di San Paolo in Italia. Tutto filava nel migliore dei modi nel porto di Pozzuoli, assai frequentato soprattutto da chi giungeva dall'oriente e dal nord-Africa, e cosi pure nella vicinissima Baia, quando un bel giorno vi attraccò la nave di San Paolo, atteso da alcuni discepoli della locale comunità cristiana, ma anche dall'ordine di Nerone di farlo fuori.

"Tutti i magistrati della città lo aspettavano per catturarlo ed ucciderlo. Ma Dioscuros il capitano, essendo per caso anch'egli stempiato, si vestì della sua tunica di marinaio, e parlando incautamente andò nella città di Pozzuoli il primo giorno. E i magistrati, pensando che egli era Paolo, lo arrestarono e lo uccisero, e mandarono la sua testa a Cesare... Ma Paolo a Pozzuoli, quando senti che Dioscuros era stato decapitato, si dolse con gran dolore, e alzando gli occhi verso il cielo, disse, " Onnipotente e celeste Signore, tu che mi ha accompagnato in ogni luogo dove ho viaggiato, per l'amore del figlio unigenito del tuo Verbo, nostro Signore Gesù Cristo, castiga questa città, ed escludi tutti coloro che credono in Dio e seguono il tuo Verbo". E a loro disse, " Seguitemi". E uscendo da Pozzuoli insieme con loro che credevano nel verbo di Dio, vennero ad un luogo chiamato Baia; e osservarono con i loro occhi, e videro la città, quella chiamata Pozzuoli, sommersa nel fondo del mare, alla profondità di un braccio. E li rimase sotto il mare, fino ad oggi, come un monumento".

Importanti precedenti di celebri cataclismi scaturiti da collere nivine mosse dall'imprudenza umana, in verità, c'erano già stati. Lo stesso diluvio universale e la triste fine di Sodoma e Gomorra

inghiottite dalle acque del Mar Morto, la già ricordata Helike sparita in mare per avere mancato di rispetto a Poseidone, erano esempi tali da impensierire anche i peccatori più incalliti. Ma c'era anche chi non si contentava di semplicistiche spiegazioni. Come Seneca che, più o meno negli anni dell'arrivo di San Paolo, andava scrivendo (Naturalis quaestio VI): "Sarà utile mettersi bene in mente che con questi fatti gli dei non hanno nulla a che vedere e che gli sconvolgimenti della terra e del cielo non sono effetto dell'ira dei numi. Codesti fenomeni hanno delle loro cause precise, né si scatenano in obbedienza a ordini ricevuti".

Per fortuna, l'orientamento scientifico di Seneca ha prevalso. Cosi come dovrebbe prevalere anche nell'archeologia subacquea. Oltre allo scavo del ninfeo di Punta Epitaffio, sembrano indicarlo alcuni interventi volti alla prosecuzione dei rilevamenti dei resti sommersi nel golfo di Baia, promossi anche da gruppi volontari di subacquei, mossi da orientamenti ben diversi dal passato, ai quali si auspica si uniscano concrete iniziative ufficiali.

Sono ora, inoltre, disponibili nuove fotografie aeree che evidenziano con buona leggibilità il susseguirsi delle antiche strutture lungo il litorale compreso tra Pozzuoli e Baia. Tra i nuovi elementi che ne scaturiscono, di particolare interesse appare l'individuazione, in prossimità del porto di Baia, di un lungo canale, forse navigabile, che dall'antica linea di costa si addentrava per alcune centinaia di metri all'interno dell'area edificata. E' suggestivo proporre di riconoscere in esso, pur in attesa di indicazioni più certe, l'accesso ad un bacino interno la cui esistenza era finora nota, con l'indicazione di Stagnum Neronis, attraverso le schematiche vedute paesaggistiche raffigurate sui vasi vitrei di produzione puteolana di cui si è detto all'inizio.

Anche la conoscenza del grande complesso del Portus Iulius, l'importante porto militare fatto costruire da Agrippa nel 37 a.C., viene arricchita di nuovi dettagli desumibili dalle riprese aeree, la cui portata documentaria è ora più che mai urgente integrare con dirette indagini subacquee.

Anche al fine di evitare che la costruzione di impianti portuali turistici, improvvidamente prevista in quella zona, giunga a pregiudicarne definitivamente la sopravvivenza.

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